Nuvole

Estratto dal romanzo
“Nuvole”

[…]

Rifugiai nella solitudine, dove fui tentato e vinto dalle meraviglie della conoscenza. A lei ho dedicato i miei anni più belli, gli anni, per intenderci, che avrei dovuto vivere nella spensieratezza e che invece ho trascorso consumando pagine e pagine di sapere, ad affinare il pensiero e a torturarmi l’anima… Ero convinto di avere la situazione sotto controllo, di poter sedare l’istinto a piacimento, di gestire le emozioni con freddezza, ma l’istinto non può essere sedato e i sensi non si possono irretire a comando. Bastarono i suoi occhi per capirlo. Bastarono quelli per veder crollare certezze e punti di riferimento. Bastò un incontro per cambiare tutto. E improvvisamente mi sentii sperduto, indifeso, vulnerabile. Ma felice. Scambiammo due parole in una memorabile domenica di ottobre. Faceva freddo per essere autunno e quel mattino non mi sentivo molto bene, perciò disertai la piscina e rimasi a casa. Fu il mio giorno fortunato. Bussarono alla porta. Aprii senza curarmi del mio aspetto, sciatto e dimesso (il classico aspetto da week-end: divano e letto), del resto, mi dissi, o è Luca o è Sandro, i miei vicini d’appartamento. Invece no. Era lei. E appena la vidi non capii più nulla.
«Ciao» mi salutò. «Scusa per l’ora, ma volevo sapere se da te l’elettricità funziona», disse allungando il collo per sbirciare in casa. «A quanto pare si» sentenziò da sé.
Ricordo un me stesso basito, scalzo, in piedi sulla porta, con in mano una tazza di tè a fissare due occhi di un marrone inconsueto.
«Già» riuscii a pronunciare, grattandomi la testa e domandandomi chi fosse, da dove arrivasse e cosa ci facesse nel mio pianerottolo una ragazza così bella a quell’ora.
«Sto da mio fratello» continuò, «Luca è in Argentina per lavoro e io sono qui per uno stage. Solo che non conosco molto dell’appartamento e non ho idea di dove sia il contatore…»
«Ah si, il contatore» dissi. Di tutto il resto avevo capito poco e presi a scendere le scale «Vado io… È giù nell’atrio.»
«Vuoi lasciarmi la tazza?» mi chiese
«Oh, la tazza. Che scemo.» Gliela porsi.
«Scendi scalzo?» Aggiunse accennando un sorriso che non passò inosservato.
«Si. Scendo scalzo. Certo.» E io odio camminare scalzo!
«Ok. A proposito, io sono Luna.»
«Tristano» e corsi giù con il cuore in gola, in preda a una sensazione di leggerezza tutta nuova.“Luna. È un nome bellissimo” pensai mentre sollevavo l’interruttore e riaccendevo il suo mondo al piano di sopra.

[…]

Estratto dal romanzo
“Nuvole”


Testo: Copyright © 2016 Francesco Barazza. Estratto dal romanzo “Nuvole”. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Il melograno

Estratto dal romanzo
”Il melograno”

[…]

È nella magica armonia delle forme,
l’ispirazione mia guida.

Li scrisse di getto, senza pensare. Versi puliti, sgorgati con omogeneità in un eufonico concerto di suoni, nel medesimo istante in cui Angelo ultimava la sua nuova sfera. Perfetti, essenziali. Profondi e lapalissiani quanto bastava a ritrarre senza sbavature il momento magico che stava vivendo. Non poté tuttavia non scorgere in quelle parole un barlume di sé, concludendo amaramente di aver fallito anche stavolta. Adagiò allora il quaderno sulle ginocchia e rivolse l’attenzione al vecchio in fondo alla stanza. “Ecco l’ennesima palla da piazzare chissà dove…”, pensò guardando l’anziano concentrato in un meticoloso esame della nuova creazione, “ce ne sono dappertutto!”. Solo ora notava la moltitudine di globi lignei posti qua e là nel salone, “ma quanti sono?” si chiese. Erano tanti, colorati e a Leano ricordarono l’infanzia, la famiglia, la spiaggia, il mare e le biglie di vetro, che il nonno gli regalava ogni estate per giocare sulla sabbia. In che strano posto era capitato? Spinse la mente a rovistare tra i ricordi di migliaia di pagine divorate negli anni, finché l’immagine sbilenca della casa del cappellaio matto non affiorò spontaneamente dal caos. «Ci potrebbe anche stare» sorrise soddisfatto. «È una situazione così surreale!» sentenziò girando su se stesso e aprendo le braccia come a dire “vedi un po’ qui!”. E all’apparenza aveva ragione. Tutto faceva supporre a un luogo fantastico, a una dimora incantata, come se parte di un’abitazione del mondo delle favole avesse sfruttato una fenditura nel tempo, l’avesse in qualche modo penetrata e fosse apparsa nella nostra dimensione, quella della realtà per come la conosciamo noi: ordinata e precisa. Statica e noiosa. Un’ipotesi bizzarra in verità, priva di sensatezza, che però restava un’ipotesi alla quale avrebbe creduto volentieri semmai gli fosse stata proposta, perché nella sua follia quell’ipotesi, oltre a un cuore grande, possedeva qualcosa che lui bramava da molto. Nascosta dietro l’apparente assenza di buonsenso dell’anfitrione, dei suoi famigliari e delle loro innumerevoli stranezze, v’era una luce. E quella luce gli apparteneva. L’aveva compreso la sera del suo arrivo: lì, avrebbe ottenuto un nuovo tassello del mosaico, fondamentale per la prosecuzione del viaggio e la propria ricerca. Non sapeva ancora di cosa si trattasse e come ne sarebbe entrato in possesso, ma quel luogo l’aveva chiamato a sé con una strana alchimia di sapori antichi e tonalità decise; un profumo di vita nuovo che non sospettava esistesse, finché quella gente bislacca non l’aveva accolto con calore, senza chiedergli chi fosse, da dove venisse, perché viaggiasse solo, dove fosse diretto. Niente. Nessuna domanda. Nessun interesse. Nessuna curiosità da soddisfare. E di ciò era loro infinitamente grato.

Angelo rimirava la sua creazione girandola e rigirandola tra le mani, sincerandosi di non aver commesso errori e cercando di non farsi sfuggire le microscopiche e fastidiose imperfezioni, «come è successo con quella azzurra» aveva detto poco prima, «lì si che ho dovuto smussare alcuni rigonfi fastidiosi… Che lavoraccio!» ma stavolta la sfera era perfetta. L’appoggiò su un trespolo in miniatura e prese dallo scaffale un vasetto di vernice, osservando con la coda dell’occhio il giovane ospite, intento a seguire con interesse ogni suo movimento. «Da cosa stai fuggendo?» sibilò tra sé, mentre i pensieri fluttuavano rumorosi accavallandosi l’uno sull’altro, “da quale dolore? Da quale ingiustizia?”, la piccola testa canuta oscillava vistosamente come un pendolo impazzito. “E questo silenzio? No… No mio giovane amico, non servirà. Anche se non parli è tutto scritto nei tuoi occhi. È l’espressione del volto a tradirti… Come posso io… Non permettere a chiunque di leggere, di capire… Cosa potrei… Io… Sarebbe inutile. A me non diresti nulla, lo so. E poi non voglio conoscerlo il tuo segreto, sono troppo in là con gli anni per sopportare l’impotenza del mio essere.”
«Ragazzo» lo chiamò allora, accingendosi a spennellare la sfera. Leano sussultò terrorizzato all’idea di rispondere a domande non ancora poste, ma che presto o tardi, qui o altrove, avrebbe dovuto affrontare. Restò in attesa dunque, pensando in fretta a come avrebbe aggirato l’ennesimo ostacolo. «Quale sfera ti piace di più?» si sentì chiedere.
Sorpreso e sollevato, il giovane sorrise chinando il capo a mascherare un sottile nervosismo sfociato in un inarrestabile tremore alle labbra. «Cosa intende di preciso? Sono tutte uguali» riuscì a malapena a balbettare.
«Che hai?» domandò preoccupato lo scultore «ti senti male?»
«No no, va tutto bene. Ero solo sovrappensiero… Cosa diceva?»
«Stavi forse meditando?»
«No, assolutamente… Che stava dicendo?» lo incalzò il ragazzo.
«Stavo dicendo che forse mi sono espresso male. Volevo dire, quale colore preferisci… Insomma, ognuno di noi ha delle preferenze in tal senso, no?»
«Il bianco. Decisamente il bianco» affermò sollevando il capo «anche se qui non c’è nessuna sfera bianca.»
«Decisamente-il-bianco, dice lui! E perché il bianco?»
«Perché mi è sempre piaciuto. Più di ogni altro colore. Mi rilassa… Mi da pace» disse annuendo. «Anche se in tanti lo ritengono un colore freddo.»
«Freddo?»
«Sa, la questione che sia il colore della neve, dell’inverno…»
«Balle! Tutte balle!» protestò guardandolo dritto negli occhi «come si può ridurre un colore a così poco! Si tratta di convenzioni… Solo mediocri convenzioni… Niente di più. Questa è discriminazione bella e buona, te lo dico io! Dscriminazione! Guarda alla natura e capirai tutto» sospirò. «La natura amico mio, è il più pacifico esempio di anarchia che io conosca! Non sei d’accordo?» e rise. «Alla faccia di quelli che giocano con mode e tendenze, lei mescola a piacere colori e forme, accostando tonalità e creando sfumature che certe menti umane limitate troverebbero discordanti, brutte da vedere… Inconcepibili, direbbero, quando invece sono abbinamenti magnifici!» S’affacciò in estasi alla finestra spalancata, attratto dai colori decisi di una primavera precoce.
«Guarda tu stesso» gli disse «e dimmi cosa vedi.»
Leano spaziò con lo sguardo su un oceano screziato provando un insolito senso di sicurezza che non sapendo né spiegare, né descrivere, attribuì alla suggestione del momento. Al carisma di quell’uomo esile e curvo che tanto l’aveva colpito.
«In tutto questo» concluse l’anziano scultore «io vedo espressione, nient’altro che espressione.» Pronunciò ogni parola dandole il giusto peso, la giusta intonazione e il giusto spazio; quello spazio fatto del silenzio che serve a dar consistenza, a conferire alla frase profondità, pienezza e armonia. Aveva ragione: la natura è pura espressività. È Equilibrio e checché se ne dica, certezza assoluta.
«E quale invece non ami?» gli chiese il vecchio.
«A dir la verità, Signore, non mi piacciono né il viola, né il nero. Mi mettono ansia e mi soffocano.»
«Bene. Molto bene.» sentenziò Angelo «E sai perché te l’ho chiesto?»
«Immagino sia perché ogni colore ha un proprio significato, non è così?» Angelo annuì.
«Si, è così! Ogni colore ha un suo perché e molti lo ignorano… Anche chi non dovrebbe, in realtà… Comunque, seppur superficialmente, è ovvio, il colore identifica chi siamo. Da un’idea del nostro essere. La preferenza dell’uno piuttosto che dell’altro indica l’essenza che ci contraddistingue… Capisci? L’essenza. Ricordatela questa parola!»
«Perché scolpisce solo sfere?» lo interruppe Leano.
«Come dici?»
«Perché scolpisce solo sfere?» ripeté il giovane, ora pentito della sua irrefrenabile curiosità.
«Sfere?… Mica sono sfere queste, ragazzo! Io non scolpisco forme geometriche. Nossignore. Questi sono ritratti» puntualizzò Angelo «e sono perfetti» concluse poi con una punta di orgoglio mentre ultimava di colorare il nuovo globo. Leano trattenne per sé ogni contestazione. «Anche questa volta mi sono espresso male giovane irrequieto», proseguì Angelo, «ovviamente non sono ritratti di persone fisiche, che fesseria! Certo che no! Questi sono ritratti di anime.»
«Anime?»
«Anime, si. Ti sorprende?»
«Un po’. Ammetterà che è alquanto inconsueto vedere ritratti di anime… Soprattutto se sono tutti uguali.»
«No che non lo sono. Ognuno è diverso e la differenza non sta nella forma, sta nel colore… Vedi, io ho la presunzione di ammettere che l’anima è pura essenza e in quanto tale, perfetta. La forma della sfera incarna la perfezione assoluta, su questo siamo tutti d’accordo, ne convieni? Il colore invece delinea la personalità, l’indole, il carattere. In sintesi ciò che siamo durante l’esistenza.»
«Saremmo quindi colore?» sorrise Leano.
«Anche colore» precisò Angelo, inarcando le sopracciglia.
«E il bianco?» chiese Leano.
L’uomo rabbrividì. S’interruppe. Il viso rabbuiò e lo sguardo si posò torvo sul giovane «Il bianco» latrò una voce bassa e minacciosa «è tutta un’altra storia… E tu non sei ancora pronto per ascoltarla!»

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Estratto dal romanzo
“Il melograno”



Testo: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Estratto dal romanzo “Il melograno”. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royalty Free.

Il cielo di Giovanni

Racconto Breve
”Il cielo di Giovanni”


Quella notte il cielo scrisse ancora. Con fulgide stelle e punteggiatura di nuvole zingare, riempì di parole semplici un candido foglio di notte. Giovanni, letto il messaggio, spalancò la finestra, si sistemò sul lettone con un’enorme coperta sulle spalle e iniziò a conversare teneramente con la magica volta. Lo faceva quasi ogni sera, prima di addormentarsi.

«Buonanotte a te mio cielo immenso e a te grande luna d’alabastro e anche a voi, dolci stelle lontane, che brillate di luce riflessa in passato… Non me le sono mica inventate io queste parole, sai? Le ho lette stamattina in un quaderno vecchio scritto dal mio papà. Tu lo sai cos’è un poesia? … Non lo sai? Davvero? … Vabbè, allora te lo spiego io. Sono belle parole messe insieme per fare la rima, come per esempio “il grillo villano, saltella sul divano”, capito? … Come dici? Ma no! Sto bene, la mamma sai com’è, esagera sempre. La conosci no? … Chi? Papà dici? No … Si, mi manca tanto quando è lontano. Credo siano i nostri discorsi da uomini a mancarmi di più. Il fatto è … Infatti, solo lui mi capisce. La mamma è la mamma e non può capire certe cose. Ce l’hai mai avuta una mamma, tu? …  Lo immaginavo … Bè, avere una mamma è un po’ un intralcio. Secondo lei non devi mai urlare, bisogna essere gentili anche con chi non sopporti, non puoi sputare dalla finestra e neanche fare la pipì sugli alberi. Dico, ma ti rendi conto? Poi devi prestare attenzione a scuola, non puoi chiacchierare, non puoi sporcarti, non devi dire le parolacce, rispondere male alla gente e soprattutto alle suore, non mangiare tante caramelle ed evitare le gomme americane, insomma è un gran insieme di non … Si lo so che mi vuole bene e anch’io ne voglio molto a lei, ma ogni tanto, secondo me, dovrebbe preoccuparsi di meno. Io poi sono molto responsabile … Scusa, non ho sentito … Solo una volta al parco, io e Patrizio, ma non ci ha visti nessuno e poi l’albero mica ha detto nulla! … Quello invece lo facciamo spesso. Comunque tu fai la stessa cosa, quando ti gira. Solo che a me danno le botte per un piccolo sputo e a te invece che sputi per ore, a volte giorni interi, ti fanno anche i complimenti. Sarà mica giusto! Io poi sono un bambino e credimi cielo, mica ci capisce nessuno a noi e sai cosa mi fa più rabbia? Tutti dicono di capire e capire … Infatti, è proprio questo il punto, loro dicono di esserlo stati bambini, ma se li sentissi parlare diresti il contrario e poi dai cielo, parliamoci chiaro, se lo fossero stati mi farebbero fare tutte quelle cose che invece continuano a proibirmi … No guarda, non ti ci mettere anche tu con la solita storia … Come? No! Non è vero. Le bugie le diciamo perché ci costringono loro. Ti faccio un esempio. Ieri mattina sono andato giù con Patrizio, il bambino dell’interno 14, un bimbo simpatico sai, lo dovresti conoscere. Insomma, siamo andati giù a giocare a pallone, a proposito ci hanno buttato fuori due settimane fa … Come da dove! Dal mondiale no?! Comunque ti dicevo, siamo andati giù e abbiamo cominciato a tirare e Patrizio ha tirato un po’ più forte e ha beccando la pianta di fiori arancioni della Signora Sonia … Non lo so come si chiama la pianta, che domande mi fai? La vedi? È quella lì. Quindi siamo scappati come due razzi e ci siamo rifugiati a casa di Patrizio fino a mezzogiorno. Nessuno si era accorto di nulla. Durante il pranzo la mamma mi ha chiesto se avevo giocato nel cortile con la palla e allora ho pensato, qua mi vogliono fregare e le ho detto di no, che io e Patrizio non avevamo tirato sulla pianta della Signora Sonia. La mamma si è messa a ridere, cosa strana in effetti, comunque io ho detto una cosa vera, non una bugia, mica volevamo fare danni noi. Insomma, lei mi ha creduto, sai? … Te l’ho appena detto, si è messa a ridere e mi ha accarezzato i capelli. Valli a capire tu questi grandi … Come? … Torna domani … In Viennam … Che? Non Vienna, Viennam … Non lo so dire come lo dici tu! … Eh vabbe’, la t non mi viene! … Cielo, tu lo sai dov’è il Viennam? … Davvero lo vedi? … Anche adesso? … Senti cielo, me lo saluti il mio papà? … Lui mi può vedere dal Vie… Da quel posto lì? … Perché no? … Ah, ho capito. Be’, allora digli ciao da parte mia, tanto lo vedrò domani … La mamma ha detto che arriverà con l’aereo alle dieci di sera e mi ha promesso che potrò aspettarlo alzato, quindi domani se non verrò a salutarti non ti arrabbierai, vero? … Ok! Adesso vado a dormire perché ho sonno … Va bene, ma mi aiuti a sognare il mio papi? … Ok! Allora buonanotte a tutti lassù …»

Richiuse la finestra, ripiegò la coperta azzurra e la sistemò nell’armadio. La fioca luce di un abat-jour a forma di gatto si spense gradualmente e un letto piatto si gonfiò adagio. Il cielo sorrise, Giovanni abbracciò il cuscino azzurro e la notte tacque… Per un attimo. Poi il paralume si riaccese, dal letto sgusciò Giovanni. Corse alla finestra, la spalancò di nuovo. Si guardò intorno sospettoso, alzò lo sguardo in su a perdersi tra le stelle.

«Cielo? Ehi, Cielo! Sei ancora lì? … Mi sono dimenticato, puoi dire al mio angioletto di scendere subito per piacere, altrimenti mica dormo tranquillo io … OK! Grazie e buonanotte di nuovo a tutti … Ciao.»



Testo: Copyright © 2006 Francesco Barazza. Racconto Breve “Il cielo di Giovanni”. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royalty Free.