KLARA E IL SOLE | Kazuo Ishiguro

EINAUDI | 269 PAGINE | 19,50€

Seduta in vetrina sotto i raggi gentili del sole, Klara osserva il mondo di fuori e aspetta di essere acquistata e portata a casa. Promette di dedicare tutti i suoi straordinari talenti di androide B2 al piccolo amico che la sceglierà. Gli terrà compagnia, lo proteggerà dalla malattia e dalla tristezza, e affronterà per lui’ l’insidia più grande: imparare tutte le mille stanze del suo cuore umano.

Kazuo Ishiguro, 66 anni, scrittore britannico di origine giapponese, torna in libreria con un nuovo romanzo; il primo, dopo il conferimento del Premio Nobel per la letteratura nel 2017. “Klara e il sole” (Einaudi), in un certo senso, riprende l’esplorazione della complessa dimensione umana, scandagliandola da un punto di vista apparentemente freddo e distante, quello per l’appunto di Klara, un androide di ultima generazione, che dalla vetrina di un negozio, osserva il mondo in attesa di essere acquistata. Attraverso gli occhi retinati di Klara, Ishiguro ci regala una toccante riflessione sul valore dell’amore, sulle complicate dinamiche del cuore, sovente incomprensibili e sulle delusioni. “Klara e il sole” riprende quindi alcune delle tematiche care all’autore, in parte affrontate in “Non lasciarmi”, opera visionaria di sconvolgente bellezza, pubblicata nel 2005 e inserita dal Time tra i cento migliori capolavori letterari in lingua inglese del novecento. 


Nuvole

Estratto dal romanzo
“Nuvole”

[…]

Rifugiai nella solitudine, dove fui tentato e vinto dalle meraviglie della conoscenza. A lei ho dedicato i miei anni più belli, gli anni, per intenderci, che avrei dovuto vivere nella spensieratezza e che invece ho trascorso consumando pagine e pagine di sapere, ad affinare il pensiero e a torturarmi l’anima… Ero convinto di avere la situazione sotto controllo, di poter sedare l’istinto a piacimento, di gestire le emozioni con freddezza, ma l’istinto non può essere sedato e i sensi non si possono irretire a comando. Bastarono i suoi occhi per capirlo. Bastarono quelli per veder crollare certezze e punti di riferimento. Bastò un incontro per cambiare tutto. E improvvisamente mi sentii sperduto, indifeso, vulnerabile. Ma felice. Scambiammo due parole in una memorabile domenica di ottobre. Faceva freddo per essere autunno e quel mattino non mi sentivo molto bene, perciò disertai la piscina e rimasi a casa. Fu il mio giorno fortunato. Bussarono alla porta. Aprii senza curarmi del mio aspetto, sciatto e dimesso (il classico aspetto da week-end: divano e letto), del resto, mi dissi, o è Luca o è Sandro, i miei vicini d’appartamento. Invece no. Era lei. E appena la vidi non capii più nulla.
«Ciao» mi salutò. «Scusa per l’ora, ma volevo sapere se da te l’elettricità funziona», disse allungando il collo per sbirciare in casa. «A quanto pare si» sentenziò da sé.
Ricordo un me stesso basito, scalzo, in piedi sulla porta, con in mano una tazza di tè a fissare due occhi di un marrone inconsueto.
«Già» riuscii a pronunciare, grattandomi la testa e domandandomi chi fosse, da dove arrivasse e cosa ci facesse nel mio pianerottolo una ragazza così bella a quell’ora.
«Sto da mio fratello» continuò, «Luca è in Argentina per lavoro e io sono qui per uno stage. Solo che non conosco molto dell’appartamento e non ho idea di dove sia il contatore…»
«Ah si, il contatore» dissi. Di tutto il resto avevo capito poco e presi a scendere le scale «Vado io… È giù nell’atrio.»
«Vuoi lasciarmi la tazza?» mi chiese
«Oh, la tazza. Che scemo.» Gliela porsi.
«Scendi scalzo?» Aggiunse accennando un sorriso che non passò inosservato.
«Si. Scendo scalzo. Certo.» E io odio camminare scalzo!
«Ok. A proposito, io sono Luna.»
«Tristano» e corsi giù con il cuore in gola, in preda a una sensazione di leggerezza tutta nuova.“Luna. È un nome bellissimo” pensai mentre sollevavo l’interruttore e riaccendevo il suo mondo al piano di sopra.

[…]

Estratto dal romanzo
“Nuvole”


Testo: Copyright © 2016 Francesco Barazza. Estratto dal romanzo “Nuvole”. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Venezia

Venezia

poesia

Venezia bambola dormiente
vestita d’oro e porcellana.
Le braccia tese, a oriente – lacrime d’avorio –
melodia sacrilega in musica
suonata d’istinto – romanza ardita –
ritmico remeggiare di ieri – batte le note del tempo.
Piovono foglie di rame – incantevole preludio
di viaggio – drappeggi di seta scarlatta
adagiati su ceneri di piombo. Oblio.

Sospesi nell’effimero notturno – è di anime turbate il passo –
s’avviano in processione muta i misteri.

Venezia. Bambola di sale, assopita… Sogna.



Testo: Copyright © 2003 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Gli “Slanci” di Anna

“Non conosco nulla che non sia colore. Nulla”

“Chi siamo?”
“Colori in transizione. Ecco cosa siamo.”
“E tu che colore sei?”
“Non potrei mai essere un solo colore, io. Io sono tutti i colori del mondo, perché dal mondo prendo vita e del mondo posseggo l’anima… Gli occhi, amore mio. Gli occhi sono la chiave. E i miei occhi non guardano soltanto. Oh no, i miei occhi ancora sanno vivere.”
“Detto così sembra facile.”
“Lo è, infatti. È sempre stato facile. L’aver dimenticato quanto lo sia, lo rende difficile…”
“Forse hai ragione tu. Siamo diventati ciechi oramai.”
“Forse. Tuttavia chiediti, sapremmo riconoscere le qualità della luce, se non conoscessimo l’oscurità e le sue pene?”

La capacità di vedere oltre, sebbene nota a pochi, è comune ad ogni essere umano ed è un dono meraviglioso. Una dote silente che giace nel profondo di ognuno e in quel luogo sospeso, fatto di fede e meditazione, attende d’essere chiamata, di schiudersi e rivelarsi nello stupore di un istante che senza una precisa ragione può cambiare una vita. Basta poco: una parola, un sorriso, un gesto, un sogno. A volte può essere una verità, altre una bugia. A volte è uno sguardo assorto, magari rapito dai dettagli di un dipinto, in viaggio lungo le linee di una scultura o ancora smarrito nei colori della vita… Abbiamo educato gli occhi a guardare soltanto, dimenticando la pienezza di un’osservazione accorta e puntuale, volta a comprendere le infinite sfumature dell’esistenza. E abbiamo dimenticato i colori. Le loro intensità. Le tonalità vivaci. Quelle delicate. I contrasti. L’equilibrio e l’armonia. E la musica. La musica suonata solo per noi, diversa per ciascuno di noi, che solo il cuore avverte. Le ricercate sinfonie di Anna Galassini, percepite nella contemplazione dei suoi “slanci”, sono un’esortazione alla vita. Un’esaltazione delle cose belle della vita, che alla fine sono le più semplici e le più vere. Quelle pure, che non sbiadiscono, che col tempo migliorano assumendo valore, che riemergono all’improvviso ai primi sintomi di paura, che scaldano il cuore nei momenti difficili. Che leniscono il dolore e acuiscono la speranza quando tutto sembra essere perduto. Parlo di abbracci, di carezze, di un bacio sulle gote, di frasi dette con amore, di onestà, di fiducia, di coscienza. Parlo di solidarietà, spesso confusa con la compassione, di una mano tesa, di sguardi mai chiesti e anche dei silenzi di un amico, regalati per ascoltare, per condividere, per sollevare. Chiunque possieda un cuore sa a cosa mi riferisco. Tutti, almeno una volta nella vita abbiamo provato sensazioni simili e tutti, almeno una volta, ne abbiamo avvertito la forza. Dirompente. Esplosiva. Rigenerante. I ricordi hanno questa forza! Possiedono un potere immenso e non possono essere fermati.Vivono in noi e assurgono dagli abissi della memoria per soccorrerci quando necessario. Con uno slancio verso l’alto, spingono il presente a mitigare il momento mediante un suono, un’immagine, uno scambio, un’istante di tenerezza che in quel frangente potrebbe cambiare ogni prospettiva. E lo slancio, quello slancio verso la vita cui tutti siamo per natura attratti, è magistralmente rappresentato dalle sculture di Anna, che ad Anna appartengono tanto quanto alle donne, delle quali racconta storie senza filtri. Percorsi diversi, mai paralleli, simili e dissimili, uguali e contrastanti. Comunque, tutti racchiusi nell’armonia di un arco proteso verso l’alto, all’interno del quale fioriscono i lineamenti di un corpo che, in movenze leggiadre, raffinate ed eleganti, celebra tutto quanto c’è da celebrare della vita. Gli “Slanci” sono materia viva agli occhi di chi, vivo, sente e vive l’incontro – perché di incontro si tratta – con la parte più introspettiva di sé. Ai colori è dato invece delineare il carattere. L’indole. Virtù e difetti. Nei colori v’è l’anima che tanto nominiamo, ma sovente dimentichiamo di avere e in un’epoca dove tutto e tutti sono connessi, in cui l’apparire s’è sostituito all’essere e dell’essere non rimangono che brandelli sbiaditi, gli “slanci” screziati di Anna sono luce nuova. Espressività sofferta, eccelso risultato di pingue ricerca personale volta a ritrarre i lati nascosti dell’IO e di emozioni intime. Ogni “slancio” è quindi un pugno allo stomaco, uno schiaffo violento in pieno volto, che desta dalla superficialità indotta da stereotipi effimeri e stimola l’uso della vista anche per “sentire”, per cogliere ciò che non riusciamo più a cogliere. L’essenza. E l’essenza, per Anna, non è forma. È sostanza.



Testo: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Intro alla mostra “Slanci” di Anna Galassini. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Foto: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

L’opera rappresentata è “SLANCIO” di Anna Galassini. Copyright © 2015 Anna Galassini. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Nel tempio del tempo

Nel tempio del tempo

poesia

Prosternato dinanzi all’ara disadorna del Tempo –
di cavalieri erranti è azzima memoria – su spoglie di paglia
arde irruente, ravvivata dall’enfasi malata del gelo,
la fiamma mistica del giudizio – esecrabile ostia immolata al profano.
Prostrato ai piedi dell’altare tetro del Tempo – creatura nuda
in pregiata lidite – su eburnei lumi di fulgida e tremula luce,
si consumano superbia e pudore – consulta l’oracolo il fato,
sfogliando le viscere impure del carattere umano – ed è sgomento.

Nel tempio dissacrato dal potere – anarchia abiurata nel timore
di un distacco prematuro – semino petali di poesia sgualcita –
la mia, la sua, la loro. Poesia lorda d’intelletto e d’anima –
contrasto intollerabile per puristi ed esteti – Alterigia? Vergogna?

Steso su foglie secche e avanzi di speranzosa libertà
io patisco di Tempo.



Testo: Copyright © 2002 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Acquerello e Foto: Copyright © 1999 Anna Galassini – Nel tempio del tempo – Acquerello. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Il melograno

Estratto dal romanzo
”Il melograno”

[…]

È nella magica armonia delle forme,
l’ispirazione mia guida.

Li scrisse di getto, senza pensare. Versi puliti, sgorgati con omogeneità in un eufonico concerto di suoni, nel medesimo istante in cui Angelo ultimava la sua nuova sfera. Perfetti, essenziali. Profondi e lapalissiani quanto bastava a ritrarre senza sbavature il momento magico che stava vivendo. Non poté tuttavia non scorgere in quelle parole un barlume di sé, concludendo amaramente di aver fallito anche stavolta. Adagiò allora il quaderno sulle ginocchia e rivolse l’attenzione al vecchio in fondo alla stanza. “Ecco l’ennesima palla da piazzare chissà dove…”, pensò guardando l’anziano concentrato in un meticoloso esame della nuova creazione, “ce ne sono dappertutto!”. Solo ora notava la moltitudine di globi lignei posti qua e là nel salone, “ma quanti sono?” si chiese. Erano tanti, colorati e a Leano ricordarono l’infanzia, la famiglia, la spiaggia, il mare e le biglie di vetro, che il nonno gli regalava ogni estate per giocare sulla sabbia. In che strano posto era capitato? Spinse la mente a rovistare tra i ricordi di migliaia di pagine divorate negli anni, finché l’immagine sbilenca della casa del cappellaio matto non affiorò spontaneamente dal caos. «Ci potrebbe anche stare» sorrise soddisfatto. «È una situazione così surreale!» sentenziò girando su se stesso e aprendo le braccia come a dire “vedi un po’ qui!”. E all’apparenza aveva ragione. Tutto faceva supporre a un luogo fantastico, a una dimora incantata, come se parte di un’abitazione del mondo delle favole avesse sfruttato una fenditura nel tempo, l’avesse in qualche modo penetrata e fosse apparsa nella nostra dimensione, quella della realtà per come la conosciamo noi: ordinata e precisa. Statica e noiosa. Un’ipotesi bizzarra in verità, priva di sensatezza, che però restava un’ipotesi alla quale avrebbe creduto volentieri semmai gli fosse stata proposta, perché nella sua follia quell’ipotesi, oltre a un cuore grande, possedeva qualcosa che lui bramava da molto. Nascosta dietro l’apparente assenza di buonsenso dell’anfitrione, dei suoi famigliari e delle loro innumerevoli stranezze, v’era una luce. E quella luce gli apparteneva. L’aveva compreso la sera del suo arrivo: lì, avrebbe ottenuto un nuovo tassello del mosaico, fondamentale per la prosecuzione del viaggio e la propria ricerca. Non sapeva ancora di cosa si trattasse e come ne sarebbe entrato in possesso, ma quel luogo l’aveva chiamato a sé con una strana alchimia di sapori antichi e tonalità decise; un profumo di vita nuovo che non sospettava esistesse, finché quella gente bislacca non l’aveva accolto con calore, senza chiedergli chi fosse, da dove venisse, perché viaggiasse solo, dove fosse diretto. Niente. Nessuna domanda. Nessun interesse. Nessuna curiosità da soddisfare. E di ciò era loro infinitamente grato.

Angelo rimirava la sua creazione girandola e rigirandola tra le mani, sincerandosi di non aver commesso errori e cercando di non farsi sfuggire le microscopiche e fastidiose imperfezioni, «come è successo con quella azzurra» aveva detto poco prima, «lì si che ho dovuto smussare alcuni rigonfi fastidiosi… Che lavoraccio!» ma stavolta la sfera era perfetta. L’appoggiò su un trespolo in miniatura e prese dallo scaffale un vasetto di vernice, osservando con la coda dell’occhio il giovane ospite, intento a seguire con interesse ogni suo movimento. «Da cosa stai fuggendo?» sibilò tra sé, mentre i pensieri fluttuavano rumorosi accavallandosi l’uno sull’altro, “da quale dolore? Da quale ingiustizia?”, la piccola testa canuta oscillava vistosamente come un pendolo impazzito. “E questo silenzio? No… No mio giovane amico, non servirà. Anche se non parli è tutto scritto nei tuoi occhi. È l’espressione del volto a tradirti… Come posso io… Non permettere a chiunque di leggere, di capire… Cosa potrei… Io… Sarebbe inutile. A me non diresti nulla, lo so. E poi non voglio conoscerlo il tuo segreto, sono troppo in là con gli anni per sopportare l’impotenza del mio essere.”
«Ragazzo» lo chiamò allora, accingendosi a spennellare la sfera. Leano sussultò terrorizzato all’idea di rispondere a domande non ancora poste, ma che presto o tardi, qui o altrove, avrebbe dovuto affrontare. Restò in attesa dunque, pensando in fretta a come avrebbe aggirato l’ennesimo ostacolo. «Quale sfera ti piace di più?» si sentì chiedere.
Sorpreso e sollevato, il giovane sorrise chinando il capo a mascherare un sottile nervosismo sfociato in un inarrestabile tremore alle labbra. «Cosa intende di preciso? Sono tutte uguali» riuscì a malapena a balbettare.
«Che hai?» domandò preoccupato lo scultore «ti senti male?»
«No no, va tutto bene. Ero solo sovrappensiero… Cosa diceva?»
«Stavi forse meditando?»
«No, assolutamente… Che stava dicendo?» lo incalzò il ragazzo.
«Stavo dicendo che forse mi sono espresso male. Volevo dire, quale colore preferisci… Insomma, ognuno di noi ha delle preferenze in tal senso, no?»
«Il bianco. Decisamente il bianco» affermò sollevando il capo «anche se qui non c’è nessuna sfera bianca.»
«Decisamente-il-bianco, dice lui! E perché il bianco?»
«Perché mi è sempre piaciuto. Più di ogni altro colore. Mi rilassa… Mi da pace» disse annuendo. «Anche se in tanti lo ritengono un colore freddo.»
«Freddo?»
«Sa, la questione che sia il colore della neve, dell’inverno…»
«Balle! Tutte balle!» protestò guardandolo dritto negli occhi «come si può ridurre un colore a così poco! Si tratta di convenzioni… Solo mediocri convenzioni… Niente di più. Questa è discriminazione bella e buona, te lo dico io! Dscriminazione! Guarda alla natura e capirai tutto» sospirò. «La natura amico mio, è il più pacifico esempio di anarchia che io conosca! Non sei d’accordo?» e rise. «Alla faccia di quelli che giocano con mode e tendenze, lei mescola a piacere colori e forme, accostando tonalità e creando sfumature che certe menti umane limitate troverebbero discordanti, brutte da vedere… Inconcepibili, direbbero, quando invece sono abbinamenti magnifici!» S’affacciò in estasi alla finestra spalancata, attratto dai colori decisi di una primavera precoce.
«Guarda tu stesso» gli disse «e dimmi cosa vedi.»
Leano spaziò con lo sguardo su un oceano screziato provando un insolito senso di sicurezza che non sapendo né spiegare, né descrivere, attribuì alla suggestione del momento. Al carisma di quell’uomo esile e curvo che tanto l’aveva colpito.
«In tutto questo» concluse l’anziano scultore «io vedo espressione, nient’altro che espressione.» Pronunciò ogni parola dandole il giusto peso, la giusta intonazione e il giusto spazio; quello spazio fatto del silenzio che serve a dar consistenza, a conferire alla frase profondità, pienezza e armonia. Aveva ragione: la natura è pura espressività. È Equilibrio e checché se ne dica, certezza assoluta.
«E quale invece non ami?» gli chiese il vecchio.
«A dir la verità, Signore, non mi piacciono né il viola, né il nero. Mi mettono ansia e mi soffocano.»
«Bene. Molto bene.» sentenziò Angelo «E sai perché te l’ho chiesto?»
«Immagino sia perché ogni colore ha un proprio significato, non è così?» Angelo annuì.
«Si, è così! Ogni colore ha un suo perché e molti lo ignorano… Anche chi non dovrebbe, in realtà… Comunque, seppur superficialmente, è ovvio, il colore identifica chi siamo. Da un’idea del nostro essere. La preferenza dell’uno piuttosto che dell’altro indica l’essenza che ci contraddistingue… Capisci? L’essenza. Ricordatela questa parola!»
«Perché scolpisce solo sfere?» lo interruppe Leano.
«Come dici?»
«Perché scolpisce solo sfere?» ripeté il giovane, ora pentito della sua irrefrenabile curiosità.
«Sfere?… Mica sono sfere queste, ragazzo! Io non scolpisco forme geometriche. Nossignore. Questi sono ritratti» puntualizzò Angelo «e sono perfetti» concluse poi con una punta di orgoglio mentre ultimava di colorare il nuovo globo. Leano trattenne per sé ogni contestazione. «Anche questa volta mi sono espresso male giovane irrequieto», proseguì Angelo, «ovviamente non sono ritratti di persone fisiche, che fesseria! Certo che no! Questi sono ritratti di anime.»
«Anime?»
«Anime, si. Ti sorprende?»
«Un po’. Ammetterà che è alquanto inconsueto vedere ritratti di anime… Soprattutto se sono tutti uguali.»
«No che non lo sono. Ognuno è diverso e la differenza non sta nella forma, sta nel colore… Vedi, io ho la presunzione di ammettere che l’anima è pura essenza e in quanto tale, perfetta. La forma della sfera incarna la perfezione assoluta, su questo siamo tutti d’accordo, ne convieni? Il colore invece delinea la personalità, l’indole, il carattere. In sintesi ciò che siamo durante l’esistenza.»
«Saremmo quindi colore?» sorrise Leano.
«Anche colore» precisò Angelo, inarcando le sopracciglia.
«E il bianco?» chiese Leano.
L’uomo rabbrividì. S’interruppe. Il viso rabbuiò e lo sguardo si posò torvo sul giovane «Il bianco» latrò una voce bassa e minacciosa «è tutta un’altra storia… E tu non sei ancora pronto per ascoltarla!»

[…]

Estratto dal romanzo
“Il melograno”



Testo: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Estratto dal romanzo “Il melograno”. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royalty Free.

Nel giorno dell’eclissi

Nel giorno dell’eclissi

poesia

Scivola il veliero su solitudini e silenzi – polita seta d’acqua
corteggia la lisa carena consunta – schiumanti onde illibate
cullano il vascello dall’albero spezzato – lacero velame impiccato,
fluttuante nel vuoto, è ora vessillo senza patria  – e l’eco smorzata
in armonici arpeggi d’arpa, redime isolate memorie – recluse…
L’uomo non veste più di ferro, l’elsa non ha più lama.
Su rotte mai tracciate naviga l’ignaro – milite proscritto a tradimento
da infida ideologia – ed è fallace desiderio di approdare a verità,
l’ultimo tormento – l’incubo mordace, sodale di ogni sonno –
e ancora torpida, dondola su ignoti abissi la bronzea polena greca –
musa senza volto – cereo splendore dal sale avvinto – abbracciato… Eroso…
Le mani non stringono più pugni,  l’arco non è più teso.
Fu spietato mercenario – tramontò nel giorno dell’eclissi – unto dal dolore –
da fredde ceneri metalliche emerse un insolito guerriero – fiero e valoroso –
erudito condottiero di speranza – sagace capitano di nuova libertà…
E scivola il veliero su ostili mareggiate – l’uomo senza armi scruta l’orizzonte –
nuvole di pece avanzano al galoppo – chino il capo a render loro omaggio.
Non più vendetta nei suoi occhi, non più onta è la parola.

L’uomo non veste più di ferro e l’elsa non ha più lama.
Le mani non stringono più pugni e l’arco non è più teso.
Non più vendetta nei suoi occhi, non più onta è la parola
e nudo, esamina il riflesso in discontinuo movimento
di un corpo deturpato, che ancora non conosce…

Erratico ego sperduto in perenne ricerca di sé.



Testo: Copyright © 2003 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royalty Free.

Guardo al mare (e non ci sono)

Guardo al mare (e non ci sono)

poesia

Guardo al mare.
Alla sua forza.
Al mistero
celato nelle profondità
dei suoi abissi.
Alla poesia
nell’eterna eleganza
del suo movimento.

Guardo al mare
e non ci sono…

Io,
fragile ego di terracotta.



Testo: Copyright © Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royaly Free.

L’amanuense di Cesena

L’amanuense di Cesena

poesia

Claudicante il passo del vecchio amanuense – rintocco di strada è nell’aria –
del pensiero arenato su alacri mani d’oro, è memoria – sospiri trattenuti…

Oggi è il tremore ad agire. Lo ascolto. Lo osservo. Lo maledico! Lo abiuro.
Dolci memorie rispondono al richiamo di tenebre antiche – malevoli sussurri…
Celata in segmenti, parabole e segni era Conoscenza – dogma ed eresia –
e io l’amavo; qualunque fosse l’amavo. E la odiavo – misero tormento.
Di fine pergamena il suo profumo inebriava queste mura – anelito –
E chino su di te mia musa, lo fui sempre – muto servitore accorto –
arco di sostegno nel tuo esistere e traccia di speranza nella storia.
Porpora e cobalto da sfere di cristallo a vestire la tua pelle – eri così bella –
e fiorivi dall’argento nei miei occhi
e ai miei occhi era prodigio.

[A te ho votato la mia vita – consacrato iridi cerulee, dove ora è l’ombra –
a te ho donato queste mani, allora sì calde e ferme – agili e zelanti –
il mio sonno, il mio cibo, il mio tempo. A te, tutto me stesso… E l’anima.
Conobbi un Dio privo d’orizzonte – superbo commediante al soldo –
nel bieco silenzio dell’ignoranza obbedii a buie imposizioni – accadde –
avvinto dall’oscurità camminai vie non mie – presenziai a sentenze inique.
Nel tuo nome era un fuoco purificatore a illuminare le mie notti insonni.
S’intimava penitenza – castigo e condanna senza appello (negata verità).
Tra le righe t’incontrai – fosti luce, conforto e rinacqui nell’intimo mio risveglio.
Il Dio cadde. Fu deposto. Non ebbi più rimpianti – non più colpe da espiare…
È qui dentro. Tutto quanto. Nel mio cuore – troppe le candele consumate –
ed è ancora il sorriso della vita a rischiarare gli aridi solchi sul mio volto
e qualche lacrima di spontaneo disincanto a dissetarli…]

Tabernacolo d’eternità sono – vite senza tralci – ora – vetusto simulacro –
astratto scrigno di preziosi immateriali  – denigrata eredità ammuffita.
Ecco il testamento, l’ultimo mio scritto, l’ultimo mio sogno – saperti onnipresente.
Presto partirò – su dissipate ceneri poseranno questi passi – vestirò di bianco.
D’immacolata pergamena e novelle ampolle colorate mi si farà omaggio – Umiltà.
Nel tuo essere, gemmerà la prossima mia vita – l’infinita –
e chino su di te, mia musa, lo sarò anche allora – devozione.
Porpora e cobalto da sfere di cristallo vestiranno le tue grazie
e fiorirai dall’argento nei miei occhi
e ai miei occhi sarà prodigio… Ancora… Per sempre… Ovunque.

Claudicante il passo del vecchio amanuense – rintocco di strada è nell’aria…
Boccioli di rose carminio si schiudono al sole… Ed è stupore a inverno inoltrato.

Prodigio.


[Dedicata a Francesco di Bartolomeo da Figline frate nel convento di San Francesco di Cesena dal 1439 al 1472. Copiò il primo codice datato 1452 della biblioteca di Malatesta Novello di cui, dal 1450, fu anche cappellano.]


Testo: Copyright © 2003 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Copyright © 2013 Burdizo. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Il cielo di Giovanni

Racconto Breve
”Il cielo di Giovanni”


Quella notte il cielo scrisse ancora. Con fulgide stelle e punteggiatura di nuvole zingare, riempì di parole semplici un candido foglio di notte. Giovanni, letto il messaggio, spalancò la finestra, si sistemò sul lettone con un’enorme coperta sulle spalle e iniziò a conversare teneramente con la magica volta. Lo faceva quasi ogni sera, prima di addormentarsi.

«Buonanotte a te mio cielo immenso e a te grande luna d’alabastro e anche a voi, dolci stelle lontane, che brillate di luce riflessa in passato… Non me le sono mica inventate io queste parole, sai? Le ho lette stamattina in un quaderno vecchio scritto dal mio papà. Tu lo sai cos’è un poesia? … Non lo sai? Davvero? … Vabbè, allora te lo spiego io. Sono belle parole messe insieme per fare la rima, come per esempio “il grillo villano, saltella sul divano”, capito? … Come dici? Ma no! Sto bene, la mamma sai com’è, esagera sempre. La conosci no? … Chi? Papà dici? No … Si, mi manca tanto quando è lontano. Credo siano i nostri discorsi da uomini a mancarmi di più. Il fatto è … Infatti, solo lui mi capisce. La mamma è la mamma e non può capire certe cose. Ce l’hai mai avuta una mamma, tu? …  Lo immaginavo … Bè, avere una mamma è un po’ un intralcio. Secondo lei non devi mai urlare, bisogna essere gentili anche con chi non sopporti, non puoi sputare dalla finestra e neanche fare la pipì sugli alberi. Dico, ma ti rendi conto? Poi devi prestare attenzione a scuola, non puoi chiacchierare, non puoi sporcarti, non devi dire le parolacce, rispondere male alla gente e soprattutto alle suore, non mangiare tante caramelle ed evitare le gomme americane, insomma è un gran insieme di non … Si lo so che mi vuole bene e anch’io ne voglio molto a lei, ma ogni tanto, secondo me, dovrebbe preoccuparsi di meno. Io poi sono molto responsabile … Scusa, non ho sentito … Solo una volta al parco, io e Patrizio, ma non ci ha visti nessuno e poi l’albero mica ha detto nulla! … Quello invece lo facciamo spesso. Comunque tu fai la stessa cosa, quando ti gira. Solo che a me danno le botte per un piccolo sputo e a te invece che sputi per ore, a volte giorni interi, ti fanno anche i complimenti. Sarà mica giusto! Io poi sono un bambino e credimi cielo, mica ci capisce nessuno a noi e sai cosa mi fa più rabbia? Tutti dicono di capire e capire … Infatti, è proprio questo il punto, loro dicono di esserlo stati bambini, ma se li sentissi parlare diresti il contrario e poi dai cielo, parliamoci chiaro, se lo fossero stati mi farebbero fare tutte quelle cose che invece continuano a proibirmi … No guarda, non ti ci mettere anche tu con la solita storia … Come? No! Non è vero. Le bugie le diciamo perché ci costringono loro. Ti faccio un esempio. Ieri mattina sono andato giù con Patrizio, il bambino dell’interno 14, un bimbo simpatico sai, lo dovresti conoscere. Insomma, siamo andati giù a giocare a pallone, a proposito ci hanno buttato fuori due settimane fa … Come da dove! Dal mondiale no?! Comunque ti dicevo, siamo andati giù e abbiamo cominciato a tirare e Patrizio ha tirato un po’ più forte e ha beccando la pianta di fiori arancioni della Signora Sonia … Non lo so come si chiama la pianta, che domande mi fai? La vedi? È quella lì. Quindi siamo scappati come due razzi e ci siamo rifugiati a casa di Patrizio fino a mezzogiorno. Nessuno si era accorto di nulla. Durante il pranzo la mamma mi ha chiesto se avevo giocato nel cortile con la palla e allora ho pensato, qua mi vogliono fregare e le ho detto di no, che io e Patrizio non avevamo tirato sulla pianta della Signora Sonia. La mamma si è messa a ridere, cosa strana in effetti, comunque io ho detto una cosa vera, non una bugia, mica volevamo fare danni noi. Insomma, lei mi ha creduto, sai? … Te l’ho appena detto, si è messa a ridere e mi ha accarezzato i capelli. Valli a capire tu questi grandi … Come? … Torna domani … In Viennam … Che? Non Vienna, Viennam … Non lo so dire come lo dici tu! … Eh vabbe’, la t non mi viene! … Cielo, tu lo sai dov’è il Viennam? … Davvero lo vedi? … Anche adesso? … Senti cielo, me lo saluti il mio papà? … Lui mi può vedere dal Vie… Da quel posto lì? … Perché no? … Ah, ho capito. Be’, allora digli ciao da parte mia, tanto lo vedrò domani … La mamma ha detto che arriverà con l’aereo alle dieci di sera e mi ha promesso che potrò aspettarlo alzato, quindi domani se non verrò a salutarti non ti arrabbierai, vero? … Ok! Adesso vado a dormire perché ho sonno … Va bene, ma mi aiuti a sognare il mio papi? … Ok! Allora buonanotte a tutti lassù …»

Richiuse la finestra, ripiegò la coperta azzurra e la sistemò nell’armadio. La fioca luce di un abat-jour a forma di gatto si spense gradualmente e un letto piatto si gonfiò adagio. Il cielo sorrise, Giovanni abbracciò il cuscino azzurro e la notte tacque… Per un attimo. Poi il paralume si riaccese, dal letto sgusciò Giovanni. Corse alla finestra, la spalancò di nuovo. Si guardò intorno sospettoso, alzò lo sguardo in su a perdersi tra le stelle.

«Cielo? Ehi, Cielo! Sei ancora lì? … Mi sono dimenticato, puoi dire al mio angioletto di scendere subito per piacere, altrimenti mica dormo tranquillo io … OK! Grazie e buonanotte di nuovo a tutti … Ciao.»



Testo: Copyright © 2006 Francesco Barazza. Racconto Breve “Il cielo di Giovanni”. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royalty Free.

Imperfetta congiunzione d’estasi

Imperfetta congiunzione d’estasi

poesia

Scorre mansueto il fiume d’ambrosia – onirica corrente di sogni
attraversa cave d’ardesia – di plumbeo cielo s’istoria l’arida terra
e scalza, passeggia la donna su fragili ghiacci scalfiti da frutici pruni.
Roride raffiche di libeccio – ostile e aggressivo messaggero di Marte –
spirano violente – lucide sciabole sguainate nell’aria – fulminei fendenti
inferti di petto a logiche dispotiche – eroi di cartapesta tra le fiamme.
Gravi, rimbombano timpani lontani – timbri tribali in concerto essenziale –
a festa, in castelli di ruggine, danzano, ancora torbidi, negletti pensieri
– minuetto suggestivo in ritmo ternario e forma binaria… à pas de danse.
Scorre costante il fiume d’ambrosia – di rocce corrose il suo letto grinzoso
e sterile seme l’ambito futuro – sensuale cornice di eterni silenzi…
Taciute verità. Empia indifferenza – precario confine dell’etica.
Dialogo sommerso, soggiogato da chi non ha parola – oscurantismo
e dappocaggine – smodato uso di eufemismi a nascondere incertezza
ed è lento scivolare di ingannevoli ambizioni – baratro marmoreo.

Scorre mansueto il fiume d’ambrosia – avanza la notte in punta di piedi
e ignuda, la donna, volteggia aggraziata su vetri di ghiaccio… à pas de danse.

Scorre costante il fiume d’ambrosia – lambisce la terra di seta graffiata –
di lame affilate è il truce guerriero, di opale prezioso la pelle lucente…

Di rosso scarlatto si tinge l’unione… Di imperfetta congiunzione d’estasi.



Testo: Copyright © 2002 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royalty Free. Sculpture: Amore e Psiche of Antonio Canova – Louvre Museum, Paris, France.

Eternamente comete

Eternamente comete

poesia

Siamo comete spente e senza coda.
Così hanno detto.
Abbiamo amato,
oh si! Abbiamo amato senza limite alcuno…

Hai sentito il mare stanotte?
Parlava di noi, di come siamo vecchi,
di quanto siamo stanchi,
di come ancora ci abbracciamo
e ha sorriso…

Comete spente e senza coda, ci hanno detto.
È stata grandine o neve?
Non importa. Non più oramai. Dicano pure…

Lo sai,
fino a quando queste mani
scorreranno liete
gli anni scolpiti sul tuo corpo
e questi occhi, si perderanno ancora
tra i dolci lineamenti del tuo volto…
Fino a quando potrò parlarti
facendo miei i tuoi silenzi,
riposare sul tuo seno
inebriandomi del tuo profumo
e insieme ridere di questo nostro inverno,
di ciò che fummo e non saremo più;
dell’oscurità che ogni sera ci precede,
dell’angoscia di svegliarsi una mattina in solitudine…
Fino a quando tutto questo accadrà
noi saremo comete, amore mio,
con uno strascico elegante, a illuminare
lo spicchio di cielo che ancora ci appartiene.

Parlino pure gli altri… Dicano pure… Ridano pure…
Sarà ancora grandine o neve… Io e te saremo ancora comete.



Testo: Copyright © 2015 Francesco Barazza. Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione, divulgazione e stampa della presente opera, in toto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autore.

Fotografia: Web sources. Royaly Free.